L’accordo sul bilancio europeo con Ungheria e Polonia: quando il meglio non è nemico del bene


E cosi è arrivato l’accordo che ha superato la minaccia di veto di Polonia e Ungheria e assicurato l’accordo su Next Generation EU. Siccome è abbastanza evidente che non si tratta di un buon accordo, lo si definisce un accordo “realista”, un caso nel quale il “meglio sarebbe nemico del bene”. Eppure io non sono convinta che in questo caso il meglio sia nemico del bene: pur in tempi di pandemia, o forse proprio per questo, sarebbe stato necessario andare a vedere fino in fondo il bluff ungherese e polacco. Perché è dal 2010, dall’arrivo di Orban al governo e forse anche da prima, dai tempi di Berlusconi, che la UE “realisticamente” cede ai diktat e in qualche caso -come questo- pure ai bluff degli illiberali di turno e indebolisce sempre di più sé stessa. Perché, come si vede dai casi di Bulgaria e Romania e da episodi preoccupanti per lo stato di diritto in altri paesi, non è solo in Ungheria e Polonia che lo stato di diritto è rimesso in questione. Capisco che il NGEu sia importante. Ma non credo proprio che sarebbe stato in vero pericolo e che la soluzione a 25 sulla quale la Commissione stava già lavorando, sarebbe stata una opzione più seria che accontentarsi di quella arzigogolata e complicata sulla quale ci si è accordati.

Accontentiamoci: ecco il finale che ci ha propinato la Presidenza tedesca sul tema del veto posto dai governi Ungherese e polacco sul bilancio pluriannuale della UE.

La storia è nota. Poiché alcune sentenze della Corte di Giustizia, in teoria vincolanti, e iniziative finalizzate a sospenderne il diritto di voto  (ex art.7)  si sono rivelate del tutto inutili a causa di problemi procedurali e politici, nel 2018 la Commissione, nell’ambito della sua proposta di Bilancio pluriannuale pre-Covid, aveva inserito la possibilità di sospendere l’erogazione di fondi EU se avesse riscontrato violazioni ai principi fondamentali dello stato di diritto, come libertà di stampa, di associazione, indipendenza della magistratura eccetera. Tutti temi sui quali governo polacco e ungherese intervengono pesantemente e da tempo.

Il Parlamento e il Consiglio avevano faticosamente concluso a novembre un accordo sul Regolamento divenuto cosi legge (peraltro abbastanza farraginoso rispetto alla proposta originale). Se consideriamo che i Fondi UE rappresentano il 3,3% del PIL di Polonia – che è anche il maggiore beneficiario di fondi UE- e il 4,5% dell’Ungheria e che i due paesi dovrebbero ricevere delle risorse aggiuntive accordate rispettivamente 23 e 4 miliardi di euro, ci rendiamo conto che il loro veto si basava sulla convinzione di potere ancora ottenere concessioni non tanto sulla possibilità di vedersi tagliati i fondi, ma sull’inserimento di ostacoli e tempi lunghi alla procedura. E alla fine cosi è stato.

Non è un caso allora che Orban e il suo ministro della giustizia Judit Varga abbiano tweetato ieri dopo l’annuncio dell’accordo… “Vittoria! Siamo riusciti a separare le aspettative ideologiche dagli aiuti finanziari durante una pandemia e a prevenire il ricatto politico", "l'accordo rispetta i trattati dell'UE e la nostra identità nazionale" e definendo l'accordo come un "trionfo" della cooperazione tra Ungheria e Polonia.

Per ottenere che Ungheria e Polonia rinunciassero al loro veto, il Consiglio Europeo ha rifiutato di modificare il testo del Regolamento, linea rossa del Parlamento europeo, ma ha accettato di allegare una Dichiarazione interpretativa. In pratica “per tutelare gli interessi finanziari della UE” (e non per proteggere i diritti dei cittadini e cittadine) la Commissione  pubblicherà delle linee guida per l’applicazione del Regolamento, consultando  gli Stati membri. Però la Commissione si impegna a non applicare queste linee guida fino a che la Corte di Giustizia non si pronuncerà sulla loro accettabilità, sulla base di un ricorso che Ungheria e Polonia hanno già detto che faranno: la Corte di Giustizia ci mette più o meno 14 mesi in media per decidere. Per di più, queste regole varranno per le prossime prospettive finanziarie 2021/2027 e non si applicano al periodo in corso, per il quale l’UE può esborsare denaro fino al 2023. Insomma una disposizione semplice e chiara, niente soldi europei se smantelli la tua democrazia, è diventata un guazzabuglio di cavilli e termini complicati che non solo non fermeranno Orban, ma che alla fine rischiano di rafforzare anche il premier polacco, più in difficoltà che il suo collega.

 

Che fare ora? Il PE si trova di fronte a una sfida interessante. La dichiarazione approvata dal Consiglio Europeo non ha valore di legge, è appunto una dichiarazione politica. Quindi il PE potrebbe e dovrebbe fare tre cose subito: spingere la Commissione a non accettare di aspettare ad applicare la legge e i tempi lunghi della giustizia europea, mettere in atto una vera e propria campagna perché le procedure ex art. 7 tutt’ora in corso contro polacchi e ungheresi siano messe all’ordine del giorno e discusse dal Consiglio e pretendere che la Commissione riapra le procedure di infrazione per le quali Polonia e Ungheria sono già state condannate senza nessun effetto concreto e le porti di nuovo in Corte per un secondo giudizio che potrebbe aprire la strada a multe onerose. Perché c’è una cosa che deve essere molto chiara: i governi polacco e ungherese non si fermano: un paio di giorni fa la compagnia petrolifera statale polacca Orlen ha comprato ben 20 giornali regionali polacchi. E Orban, nei giorni dell’accordo tra PE e Consiglio sul Regolamento lo scorso novembre, ha fatto approvare una serie di norme che limitano fortemente la libertà di azione e il finanziamento dei partiti di opposizione, ha messo altri bavagli alla libertà di stampa ed è stata condannata dalla Corte Europea per la sua legge sull’insegnamento superiore. Quindi le istituzioni comuni, Commissione e Parlamento devono cercare di riattivare le procedure in corso al più presto. Anche perché con l’accordo di oggi, Ungheria e Polonia potranno tranquillamente continuare a incassare denaro dei contribuenti europei per parecchio tempo e sicuramente fino alle elezioni ungheresi del 2022. Mi pare che sia un rospo che un giorno o l’altro bisognerà rifiutare di ingoiare. Ecco perché il PE, che ha dimostrato di sapere tenere duro su questo tema, ha il dovere di agire: non rendere lo stato di diritto una buffonata spingendo la Commissione a non farsi bloccare dalla Dichiarazione del Consiglio che non ha valore di legge; e iniziando al più presto a usare i suoi poteri di iniziativa per una riforma dei Trattati che elimini definitivamente il cancro che affligge la UE, il diritto di veto.

 

In effetti, questo increscioso episodio rende ancora più evidente che c’è solo una soluzione per la maggior parte dei guai della UE: eliminare il diritto di veto e riportare sotto la procedura legislativa ordinaria tutte le materie di competenza della UE.

No, non è un dettaglio da azzeccagarbugli. È una urgenza assoluta.

Perché la UE è muta su praticamente tutte le crisi di politica estera? Perché ci vuole il consenso unanime per dire qualsiasi cosa, figuriamoci per agire. Perché Ungheria e Polonia possono bloccare il bilancio comunitario e non sono mai stati sottoposti alla procedura pur esistente (art. 7) di sospensione dei loro diritti di voto in caso di violazione delle regole dello stato di diritto, ormai evidenti da tempo? E perché i piccoli 4 paesi “frugali” o meglio “avari” hanno bloccato per giorni l’accordo su Next Generation? Perché ci vuole il voto dei 27 sul bilancio pluriannuale e su Next GenerationEU. Perché non c’è una azione efficace sulla migrazione? Perché anche su alcuni aspetti molto importanti della questione ci vuole il consenso. Come mai sul clima bisogna sudare le sette camice per convincere polacchi (e altri) a dire si all’aumento degli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti? Perché nel 2007 la Merkel (ancora lei) ha accettato di includere il Clima fra le questioni strategiche da decidere all’unanimità. Perché non si possono tassare i giganti del web o migliorare le politiche di welfare? Perché anche su questo ci vuole l’unanimità. Non ci sono spiegazioni molto più complicate per le frequenti impasse nelle decisioni della UE. Sia chiaro: Commissione, Parlamento, Consiglio sono organi politici che decidono sulla base di maggioranze via via cangianti e non è detto che tutte le decisioni prese a maggioranza siano necessariamente le migliori.  Ma è un fatto che tutte le misure avanzate e positive prese a livello UE derivino da decisioni prese a maggioranza con un ruolo decisivo del PE; e che di converso la triste consuetudine – ripetutasi oggi - di accontentarsi del minimo comune denominatore sia provocato dal maledetto diritto di veto, peccato originale che ci perseguita dal 1957 quando c’erano solo 6 stati membri. A 27, questo peccato originale rischia di mandarci tutti all’inferno.