COP28: avanti, ma troppo piano. cosa é stato davvero deciso a DUBAI.


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Mercoledi 13 dicembre, con un giorno di ritardo sulla tabella di marcia, il criticatissimo Presidente di COP28, l’emiratino Sultan Al Jabel, si scioglie in un sorriso scintillante dopo avere battuto con il tradizionale martello la fine della ventottesima conferenza delle Parti  della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai. Quest’anno 196 paesi e decine di migliaia di persone hanno partecipato all’evento, anche se solo i rappresentati ufficiali dei governi hanno preso direttamente parte ai negoziati. Il resto erano soprattutto lobbisti (tantissimi quelli delle industrie fossili), rappresentanti di comunità indigene, della società civile e altri esperti. Dopo quasi due settimane, il cosiddetto “Global Stocktaking” (bilancio globale) l’esercizio che ha definito lo stato della lotta ai cambiamenti climatici e indicato gli impegni delle Parti per realizzare l’obiettivo di mantenere entro il grado e mezzo il riscaldamento globale, è stato adottato per consenso. Come sempre in questo tipo di eventi, il risultato è in chiaroscuro. Ma sbaglieremmo a derubricarlo a un puro balletto diplomatico, perché pur se le decisioni alla COP non sono per lo più legalmente vincolanti, i suoi risultati orientano i governi, indicano ai settori produttivi la direzione di marcia e mobilitano milioni di persone.

Ma vediamo più da vicino alcuni dei risultati di questa COP28.

Il documento approvato conclude il primo esercizio di “valutazione globale” (Global Stocktaking) previsto dall’accordo di Parigi e che a partire da quest’anno si dovrà svolgere ogni 5 anni e che descrive lo stato della lotta ai cambiamenti climatici e che cosa si dovrebbe fare per accelerarla; per la prima volta il testo finale interviene anche sulla causa prima dei cambiamenti climatici e cioè la dipendenza dai combustibili fossili; e chiede alle Parti di contribuire a una rapida riduzione delle emissioni tra l’altro attraverso “l’abbandono graduale dei combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l'azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere emissioni nette zero entro il 2050 in linea con la scienza". Seguono altri paragrafi che menzionano tra l’altro la necessità di triplicare energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica, accelerare la riduzione delle emissioni da metano entro il 2030. Questo risultato è stato interpretato da un lato come la conferma positiva che a prescindere da tutto ci stiamo allontanando dai combustibili fossili, risultato davvero impossibile solo l’anno scorso; ma dall'altro è stato fatto notare che il prezzo di questo “transitioning away” è stato di lasciare la possibilità ai produttori di combustibili fossili di continuare a pompare gas e petrolio; in particolare attraverso la specifica menzione nello stesso documento di soluzioni tecnologiche che sono in diretta competizione per le risorse con rinnovabili ed efficienza e non saranno in grado di fornire risultati sulla riduzione delle emissioni entro pochi anni (CCS, nucleare, idrogeno...). Inoltre, il testo contiene per lo più un linguaggio non vincolante, fa riferimento solo l’orizzonte del 2050 e non indica obiettivi per il 2030.

Ciò detto, tutti riconoscono che, date le condizioni, queste due paroline erano il massimo che si poteva ottenere.

Anche la riduzione drastica delle emissioni di metano, gas molto più inquinante ma anche molto meno persistente che la CO2, è stata inserita fra le azioni prioritarie e numerose imprese e paesi si sono impegnati ad accelerarne la diminuzione. Molto positiva è stata anche la visibilità e preminenza che rinnovabili ed efficienza energetica hanno avuto durante la COP, con l’impegno di 116 paesi a raddoppiare efficienza e triplicare il ricorso alle energie rinnovabili; nel suo World Energy Outlook 2023, l'Agenzia Internazionale dell'Energia ha sottolineato che triplicare le energie rinnovabili, raddoppiare l'efficienza energetica e ridurre le emissioni di metano del 75% entro il 2030 fornirebbe l'80% dei tagli alle emissioni necessari per raggiungere l’obiettivo del'1,5 C; e solo il raddoppio dei miglioramenti dell'efficienza energetica entro il 2030 ridurrebbe le emissioni globali di anidride carbonica di oltre 7 miliardi di tonnellate, pari alle emissioni dell'intero settore dei trasporti mondiale.

 

Tutto bene allora? Assolutamente no. Dietro i sorrisi per il pericolo scampato del fallimento, oltre le ambiguità e le scappatoie appena menzionate, c’è la realtà di Paesi in via di sviluppo che hanno ancora bisogno di centinaia di miliardi di finanziamenti, che non hanno prospettive di arrivare a breve.

E infatti, è sulla parte della finanza climatica, in particolare per l’adattamento che i risultati sono stati più deludenti.

E questo nonostante il fatto che la COP28 fosse iniziata bene: il primo giorno la Presidenza aveva sottoposto alla plenaria il testo adottato dal Comitato transitorio istituito nella COP27 per rendere operativo il Fondo per le “Perdite e i danni”, da tempo richiesto dai Paesi meno sviluppati e che in pochi giorni ha raccolto 700 milioni di euro. Tutti hanno accolto con favore il "colpo" della presidenza, ma poco dopo, almeno tre questioni problematiche sono emerse: in primo luogo, il fondo è solo volontario e ha raccolto risorse largamente insufficienti visto che i bisogni sono calcolati in centinaia di miliardi ogni anno; in secondo luogo, non è chiaro chi debba contribuire e chi possa beneficiare del fondo. In terzo luogo, non ci sono regole speciali sulla continuità del fondo stesso.

Inoltre, anche per altri fondi e strumenti finanziari il divario tra le esigenze e le risorse disponibili sta crescendo e la situazione non si risolverà nell'immediato futuro; l'impegno dei Paesi sviluppati a fornire finanziamenti pubblici, nuovi e aggiuntivi, basati su sovvenzioni a fondo perduto, non è andato a buon fine come sarebbe stato necessario; per esempio, l’obbiettivo di 100 miliardi di euro per aiutare la transizione che i paesi sviluppati si erano impegnati a finanziare entro il 2020 non è stato raggiunto.

Tra i pochi aspetti positivi che si possono segnalare, nel documento finale della COP28 sono molto più espliciti gli appelli a un aumento dei finanziamenti da parte delle banche multilaterali e a una riforma del debito e della fiscalità e il cosiddetto Fondo verde per il clima ha ricevuto una spinta importante, con sei nuovi paesi sottoscrittori (fra cui l’Italia) raggiungendo il livello massimo di rifinanziamento mai raggiunto (12,5 miliardi di dollari).

 

Al di là delle luci e delle ombre del negoziato globale, però, il problema è che la macchina del mondo si muove troppo piano. Il ritmo degli sconvolgimenti del clima, lo vediamo ogni giorno, è rapido e implacabile. Qualsiasi sia il nostro giudizio sulla COP28, la scienza ci dice che dobbiamo invertire la marcia delle emissioni in modo sempre più radicale ed entro pochi anni per sperare ancora di limitare l’aumento delle temperature a 1,5° a fine secolo e arrivare a zero emissioni nel 2050. Continuando al ritmo attuale, siamo vicini ai 3° e la possibilità di impedire effetti irreversibili si chiuderà entro pochi anni.

È il senso di urgenza dell’azione che ancora manca, insomma; anche dopo la COP28 gli interessi “fossili” sono fortissimi e ricchissimi e hanno tutte le possibilità di continuare a rallentare la transizione a livello globale e dei singoli stati. Forse un esempio di questa triste realtà è proprio l’Italia. Con un Ministro che non parla inglese e che ha deciso di tornare in Italia proprio al momento critico dei negoziati, non ha toccato proprio toccato palla e forse non aveva neppure un grosso interesse a farlo; alla fine della COP, da Roma, i Ministri Pichetto Fratin e  Tajani più che sui punti cruciali dell’accordo, - rinnovabili, efficienza e uscita dai fossili, si sono rallegrati della presenza nel documento finale di nucleare, idrogeno e biocarburanti… Peraltro, nei giorni precedenti l’accordo era stata notata la discrezione dell’Italia nel commentare un primo testo definito dalla ministra spagnola Ribera “disgustoso” perché rispondeva bene agli interessi dei paesi e delle imprese produttrici di gas e petrolio; chissà che questa discrezione non abbia a che vedere con il fatto che ENI è il più importante socio proprio di ADNOC, la compagnia petrolifera emiratina….

Per fortuna, invece, la UE per una volta ha parlato chiaro e agito in modo molto efficace, per merito soprattutto della Ministra spagnola Ribera, presidente di turno del Consiglio UE, e del commissario olandese Hoekstra che ha sostituito Frans Timmermans alla Commissione europea, ma sicuramente anche della credibilità ed autorevolezza data dagli impegni che gli europei si sono presi con il Green deal.

Purtroppo, alcuni importanti attori della battaglia sul clima hanno sfoggiato ambiguità e contraddizioni. Gli USA, ad esempio, pur avendo appoggiato le posizioni più avanzate si sono impegnati con solo 20 milioni di dollari nel nuovo e celebrato fondo “Perdite e danni” e soprattutto rimarranno il maggior produttore mondiale di petrolio e gas. La Cina non si è opposta all’accordo, ma giocherà su molteplici tavoli, continuando la sua produzione di carbone, ma spingendo fortissimamente su energie rinnovabili e mobilità elettrica; e l’India non parte da Dubai con molti obblighi in più di quando è arrivata.

Eppure, ancora una volta, non tutto è perduto. Le bellissime immagini dei militanti ecologisti e dei diritti umani e civili presenti alla COP28 e attivi nei loro paesi, i tanti giornalisti e giornaliste che giorno dopo giorno hanno raccontato al mondo cosa si dice, si fa e si disfa intorno alla grande partita del clima impazzito resistendo a disinformazione e propaganda (per l’Italia vorrei citare Ferdinando Cotugno e Emanuele Bompan), i tantissimi e tantissime negoziatori e negoziatrici sinceramente impegnati in questa impresa davvero epocale ci dicono che i pochi anni che ci restano per ridurre a zero le emissioni climalteranti possono non passare invano. In fondo dipende da tutti e tutte noi.

 

Monica Frassoni

Bruxelles, 14 dicembre 2023